COLORI: Il canto e l’incanto di un cuore sapiente

Ecco alcune foto tratte da diversi testi su e di Virgilio Giotti. Le immagini potrebbero caricarsi in un tempo non troppo breve.

Qualche anno fa, girando per Trieste, città che amo particolarmente perché è quella dove è nata e vissuta mia madre, il mio sguardo è caduto su una targa apposta su un edificio di una piazza vicino al Tempio israelitico. Era intitolata a Virgilio Giotti e quel nome, in quel momento non mi ha suggerito niente, ma mi ha incuriosito, questo sì. È iniziata così la mia ricerca ed è bastato poco perché mi innamorassi di questo poeta dallo sguardo capace di infinito e dotato della sapienza del cuore.
È il caso di dire che Giotti mi è entrato nell’anima. Per sempre.

La vita di Virgilio Giotti (Trieste 1885-1957)

Nasce a Trieste nel 1885 da Riccardo Schoemberg, di origine tedesca, e dalla veneta Emilia Ghiotto. Ha una vita economicamente non facile e, dato anche il suo carattere ribelle, non segue un regolare percorso di studi; solo da adulto, spinto dal suo interesse per il disegno, frequenta la Scuola Industriale. Lo attrae anche la poesia ed è ad essa che si dedica completamente senza mai dimenticare il disegno. È intelligente ed intraprendente e riesce, a modo suo, a studiare e a farsi una cultura da autodidatta. A Trieste, frequentando la libreria di Saba, ha modo di istruirsi e al tempo stesso di guadagnare qualcosa, rilegando e restaurando libri. Entra in contatto con i primi intellettuali triestini che lo considerano “il poeta”. È “Solaria”, tra le riviste più importanti, a pubblicare le prime poesie in dialetto triestino. Quando la vita a Trieste non gli dà quello che gli serve per vivere, si trasferisce a Firenze. È il 1907 e il trasferimento è anche un escamotage per sfuggire alla chiamata di leva sotto l’impero absburgico. Firenze era allora un importante centro di cultura mitteleuropea. Dopo qualche peripezia trova alloggio stabile in una vasta soffitta (vi abitava Giorgio Fano, che poi avrebbe sposato la sorella di Giotti, Maria) in località Val d’Ema.

La vita per Giotti comincia a farsi gratificante per vari motivi: a) nel 1914 l’editore gli pubblica le poesie con il titolo “Piccolo canzoniere in dialetto triestino” (1909-1912); b) frequenta artisti di fama; c) coltiva la sua passione per il disegno; d) scrive poesie; e) incontra la donna della sua vita, Nina Schekotoff (profuga russa, già duramente provata dalla privazione durante la rivoluzione russa del ’17, di ogni diritto alla eredità patrimoniale), che diventa sua moglie e gli dà tre figli: Natalia (detta “Tanda”), Paolo e Franco (che assumeranno il cognome italiano di Belli).
A Firenze si incontra con intellettuali triestini vicini alla “Voce” (rivista d’avanguardia letteraria-filosofica fondata da Giuseppe Prezzolini, talent scout dell’epoca (amava scoprire e lanciare le giovani promesse), ma, com’è proprio del suo carattere, si tiene distante dall’ambiente pur riuscendo a captare quelli che sono i principi ispiratori della nuova poetica, che in fondo sono i suoi: l’autobiografia, l’introspezione, la verità e l’essenzialità. Dopo la pubblicazione fiorentina del “Piccolo Canzoniere” la poesia di Giotti va a gonfie vele: la Libreria Antica e Moderna di Saba gli pubblica le poesie scritte tra il 1916 e il 1919, col titolo “Il mio cuore la mia casa”.

Nel 1928 – per Solaria “Caprizzi: canzonete e storie;
Nel 1931 l’editore fiorentino Parenti pubblica la 4. opera “Liriche e idilli”
Nel 1946 gli amici Emilio Dolfi e Manlio Malabotta pubblicano in un centinaio di copie “Sera” (1943-1946), che sarà ristampato nel 1948.

L’ultima raccolta di liriche “Versi” verrà pubblicata dallo Zibaldone di Anita Pittoni
La silloge di tutte le sue liriche dal titolo “Colori” sarà pubblicata dall’editore Ricciardi e comprenderà le ultime poesie “Sera” (1948) e “Versi” (1953).

Nel 1937 la critica paludata cominciava ad interessarsi della poesia di Giotti – cito P. Pancrazi, Silvio Benco, Fubini, Sapegno, Segre, Contini; gli amici si sono dati da fare non solo pubblicando le poesie a spese loro, ma anche con l’aiuto economico che gli davano con molta cautela per non umiliarlo. Ma Giotti deve vivere; ora ha una famiglia da mantenere e, pur essendo un intellettuale, si adatta a fare il venditore ambulante di giocattoli e di oggetti dell’artigianato toscano. Costretto a stare a lungo lontano dalla famiglia per i continui viaggi di lavoro, lo lascia e nel 1919 torna a Trieste con moglie e figli. Prende in affitto un appartamento a Montebello, in via La Marmora n. 34 (5° p.) dove resterà fino alla morte. In Cittavecchia apre un negozietto di giornali e piccole riviste, ma quel che guadagna è poco, basta appena per sopravvivere. Un anno dopo, grazie agli amici, viene assunto alla Lega Nazionale e, dieci anni dopo, a chiusura dell’Ente, passa come avventizio al Comune di Trieste ed infine negli uffici dell’Ospedale Maggiore fino all’età della pensione.

Se fin qui la vita è stata “vin maduro”, diventa poi “asedo che svampissi”: muoiono prematuramente le sorelle Silvia ed Evelina, la terza Maria, si uccide con il figlioletto Pieretto malato di demenza infantile; Nina comincia ad avvertire i primi sintomi dell’epilessia. Il figlio Paolo, tipografo da Smolars, trovato in possesso di materiale sovversivo, viene mandato al confino a San Nicola di Tremiti. (Giotti subisce l’umiliazione di essere perquisito in casa sua e di doversi presentare in questura) ed anche il marito di Natalia, Emilio, antifascista, viene confinato prima alle isole Tremiti e poi in Lucania, a Chiaromonte, dove lo raggiungono Tanda e la figlioletta Vittorina (Rina) e dove nascerà Fulvio.

Dopo un anno Paolo torna dall’esilio per buona condotta, ma poi nel 1941 muore mamma Emilia e Paolo e Franco partono per il fronte russo da dove non torneranno più.

È la fine.

Nel 1957gli viene assegnato il premio dei Lincei (tre milioni di vecchie lire), ma qualche mese dopo, il 21 settembre, muore. Aveva sognato un nuovo amore: non lo trova. Si era illuso che almeno Franco potesse tornare … non tornerà. Ma fra tante illusioni, una certezza, una sola: “… non passerà molto che verrò a battere alle vostre porte per stare con voi, ombra fra ombre. Fosse dimani!”
L’editore Ricciardi ha raccolto tutte le poesie in dialetto in un unico volume con il titolo “Colori”.

“Come il vin xe la vita,
che in prinzipio el xe mosto
turbidizzo, che l’osto
porta in tola ridendo.

Dopo la se fa bona
come il bon vin maduro,
che nel goto el xe scuro
ma el brila contro luse.

La ne diventa in ultimo
asedo che svampissi.
Ben par chi che finissi
senza vèder quei giorni.
Altro no’ ocori dir”.

Ma andiamo avanti. Al centro della poesia di Giotti è, come ho detto, la famiglia. Un sogno nel cassetto da sempre: una donna vicina e solidale, un’unione indissolubile, dei bambini che rendano eterna e concreta la storia d’amore e che diano allegria alla casa con le loro voci, i loro giochi, le loro risate. Insomma la colonna sonora della vita a due e il futuro del felice presente. Giotti realizza, per un colpo di fortuna (o non piuttosto per la “fede” nel suo ideale?) il sogno di una bella e grande famiglia e la canta spesso, ce la fa quasi vedere, oltre che con disegni, attraverso parole che arrivano al cuore di chi legge ed emozionano.

“ ‘na casa mia e tua,
mèter insieme la tovàia,
mi e ti, su la tola,
con qualchidun che se alza
su le ponte d’i pie
pici e se sforza de ‘rivar coi oci
su quel che parecemo”
(I Zacinti. III, 1911)

Famiglia è dunque questo per Giotti: una coppia innamorata che non si chiude in sé, ma si apre al mondo e si continua nei figli, frutto di quell’amore che è base e senso della vita stessa.
La famiglia, sempre…anche quando il nido si vuota:

“la casa…
La se disfa…
i nostri fioi xe grandi
la casa la se fa vecia.”

E poi più avanti. Muore mamma Emilia (1941), i figli partono per il fronte russo. I due sposi sono soli, ognuno chiuso nel proprio dolore:

“Un svolo.
E noi qua semo,
soli, co’, adosso strento
strento ‘nidun el suo
fagotin de ricordi.”
(A Nina-da Novi colori, Altre poesie – in Colori)

Famiglia è sempre.

Anche quando, a guerra finita, morti Paolo e Franco in Russia, svanisce la speranza di riabbracciarli. Ma non l’illusione:
“Ombre d’i mii fioi, prima/che sparisso anca mi/stemo qua un poco insieme/ ‘na volta ancora, insieme/ciacolemo e ridemo”.
La famiglia finirà con lui quando il cuore smetterà di battere.
Strettamente legato al tema della famiglia è quello della casa, declinato in vari modi e colto molto spesso in quello che ne è l’elemento-base: la tavola, il desco famigliare, punto di incontro e incanto quotidiano. Un grande sogno è stato quello di avere una casa proprio “sua”, cioè fatta con le sue mani e secondo i suoi gusti, quindi decisamente immersa nella natura:

“Mia casa, messa in alto
come un nido de usei,
co’ le mani mie, e i mii oci
fata…”
(“La casa” Sera-parte seconda)

È il cuore pulsante del mondo poetico di Giotti, quello che ci permette di cogliere appieno la profonda spiritualità di un artista che forse non ha avuto la visibilità che meritava. Perlomeno non l’ha avuta dalla sua Trieste che nessuno come lui ha saputo amare e ritrarre.

“La casa delle case” è quella che troviamo nella splendida “El paradiso” (Parte seconda di SERA (1943-1948) in COLORI), considerata il capolavoro di Giotti: una sorta di mini-poema della vita e della morte. È qualcosa come un’allucinazione, dove attorno alla tavola sono riuniti tutti, i vivi e i morti, senza più barriere di spazio e di tempo. Tutti insieme, finalmente, oltre ogni confine. Ci sono Paolo e Franco, bambini e poi adulti, Natalia (detta anche Tanda) con la figlioletta Rina, c’è la nonna e c’è la mamma, giovane e poi vecchia. Possono sorridersi, parlarsi, come una volta. E la casa è quella di via La Marmora (dove Giotti e famiglia vivevano in affitto), ma racchiude in sé tutte le case della vita del poeta, a cominciare da quella dell’infanzia. In questa visione surreale i piani spazio-temporali si incontrano e si incrociano: presente e passato, infanzia e vecchiaia; è sera ed è mattina, è ieri ed è oggi. Coordinate spazio-temporali nuove, nate e viste da occhi che sanno guardare “oltre” e lontano, ubbidienti alle leggi di un cuore che non sa dimenticare niente. E davanti ai nostri, di occhi, si affacciano i quadri di Chagall e, perché no, anche qualcuna delle ultime immagini di quel film-testamento di John Huston che è “The dead” (I morti) (Tratto da un racconto di J. Joyce in “Gente di Dublino”).

È una visione allucinata che solo il dolore poteva creare: un luogo magico in cui riunire e far vivere tutti i propri cari scomparsi, tutti i giorni lontani, le lontane felicità, i sogni e le speranze degli affetti perduti. Un museo d’ombre.
Un’ancora di salvezza creata per tenere a distanza il rischio del suicidio. Ma anche un’ansia di sopravvivenza. Un mondo “altro”, un altrove immaginario a cui guardare nei momenti in cui è facile cedere.

E Giotti cedere non poteva perché Nina aveva bisogno di lui. E anche perché sapeva che tutto prima o poi finisce ed allora non è forse meglio continuamente a mantenere in vita quel mondo di affetti scomparso?

Ne la mia casa son;
e xe ‘sta casa quela
de ‘desso, e anca la mia
de San Felice bela,

col giardin, e quel làvarno
grando, e drio l’ortisel;
e anca quela co’ nona
Giudita e mi putel.

E el tempo che xe, bel,
tuti i tempi el xe in uno;
e la stagion no’ istà,
no’ primavera o utuno

xe, no’ inverno, ma una
bela e granda; e de sora
xe el ziel, che un xe e tuti
i ziei, e no’ ‘l ga ora:

matina xe, e sera,
e xe el bel ciaro giorno.
E mi son qua de passa
mile ani; e go ‘torno,

con mi, mia molge giòvine,
e i mii fioi grandi, e anca,
sì, putei; go mia mama
de mi … pìcio e po’ bianca

cara vècia; e Tandina
puteleta, e po’ dona,
co’ la su’ Rina e mia;
e ela la sèria nona

E stemo insieme, e tuti
insieme spassegiemo;
e se metemo in tola
e magnemo e bevemo

pulito; e se vardemo
un co’ l’altro nel viso;
e in pase se parlemo;
e semo in paradiso.

Sempre nella parte seconda di SERA troviamo un’altra delle più significative poesie sul tema: “La Casa”, quella “Mia casa, messa in alto / come un nido de usei,/co’ le mani mie, e i miei oci/fata… È la casa dei desideri, il sogno che si è trovato dentro fin da “putel”, che quindi è vera solo per il suo cuore e per i suoi occhi. Quando il suo cuore si fermerà ed i suoi occhi si chiuderanno anche la “sua” casa finirà di essere.
Ma noi sappiamo che anche questa casa soltanto sognata finirà nel paradiso, in quel sogno di eternità, in quell’aldilà laico che riunisce in un nodo d’amore tutti gli esseri amati durante il viaggio terreno. E con essi anche tutte le case reali o soltanto sognate.
E tra quest’ultime rientra “La casa incantada”, l’ultima che troviamo in COLORI. È una casetta da fiaba, con un orto ed un pergolato, situata su una montagnetta. Non è ricca ma neanche povera, non c’è nessuno dentro e tutto è molto semplice, essenziale, ma non manca nulla di ciò che serve. Sembra fatta proprio per il poeta, che non deve fare niente: il portoncino si apre da solo e tutto è pronto sia per mangiare che per dormire. Vi rimane per tre giorni e tre notti e poi se ne va. Ma quando può ritorna, percorre il sentiero che conduce a quell’oasi di pace e se ne sta in beata solitudine.
E’ quindi la casa-rifugio, una “nicchia” dove nascondersi quando la realtà diventa insostenibile. Prima di andarsene per sempre, come le foglie che l’autunno fa cadere:

“le foie rosse casca;
i àlbori i se dispòia;


Oh, andar par tera
con lore! O po’ andar soto
coverti c’una piera.”

SEREN- Da Colori (p.126) in COLORI di Virgilio Giotti
Collezione Olimpia – Longanesi et C. MI 1972

E la realtà fa presto a diventare dolorosa e dura da accettare. Nel 1941muore la mamma, Emilia, e i figli Paolo e Franco partono per la Russia, al seguito della spedizione italiana come interpreti. Desiderano conoscere la terra delle loro madre, ma da quella terra non torneranno più. Mai più lettere piene di entusiasmo per luoghi ai loro occhi bellissimi. Cala il silenzio su quel nido ormai vuoto. Ora la solitudine diventa devastante. Accanto alla sua Nina, persa in un mondo tutto suo, seduto con lei a quella tavola troppo grande per due, Giotti piange “dentro” e sono, le sue, le lacrime più amare. A venirgli in aiuto è la poesia che, oltre ad offrirgli un altro scopo per cui vivere, gli consente di far continuare a vivere le sue creature scomparse, di tenersele vicine: “Ombre d’i mi fioi, prima/che sparisso anca mi, stemo qua un poco insieme/ciacolemo e ridemo” (da Colori SERA- parte terza p. 197). Qui Giotti parla direttamente ai figli perduti come per un ultimo saluto prima di morire anche lui. È una poesia struggente e “coraggiosa” in cui chiede ai suoi ragazzi di non piangere più, perché piangere non serve. È il male di vivere, un pianto universale:
“Xe morti tanti tanti;/e papà e mame e fioi,/tanti, ga pianto e pianzi.”
Chiede perdono per non avere, come padre, saputo dare quello che il suo cuore avrebbe voluto e li ringrazia del bene che loro hanno saputo dargli.
Nel suo dolore Giotti sa farsi interprete anche del dolore di una madre. Nella poesia “La mama e l’utuno” (da Colori-SERA-parte prima di p179) il poeta interpreta il desiderio di Nina di rivedere i figli. È il 1943 e Paolo e Franco sono morti, ma lui non lo sa ancora, anche se ha un presentimento. La mamma dei ragazzi chiede notizie di loro al sole, al vento, alla luna. La sua è una follia, un delicato delirio che diventa anche quello di Giotti. Molto bella e commovente è l’espressione “Vento che te giràndoli/le foie e i oci tristi/ le varda;… Quel verbo “girandolare” ci dà l’immagine di un giocattolo caro ai bambini, la girandola appunto, investita adesso dal freddo vento della steppa russa. La vecchia madre rivede i figli bambini…’scolta, luna:/ lontan nel mio paese,/ là xe i mii fioi; e ‘desso/ i dormi; e i visi ti/ te ghe ris-ciari, come/ co i iera pici e mi/ li vardavo in quel tuo/ciaror bianco. Ti, quieta,/ dighe ti in un bel sogno/che su’ mama li ‘speta”.
Nella poesia “Co’ mia mama” (da COLORI-Sera-parte terza p.198) immagina di star seduto al tavolino di un bar con mamma Emilia, morta già da un po’. Parla con lei, tornata in vita, davanti ad una tazza di caffè, in un giorno di primavera. Quattro parole soltanto fra loro, ma il linguaggio più alto: lo sguardo e quella carezza sulla mano scarna di lei… Non le dice- non ha il coraggio- che Paolo e Franco sono morti: non vuole farla soffrire là dov’è ora.
Siamo anche qui nel surreale. A chi se non alla madre il poeta poteva rivolgersi nel momento dello sconforto più totale, come faceva da bambino? E non le dice niente
per non farla soffrire o non piuttosto perché sa che lei “sa”, là dov’è ora? Anche questa poesia è un piccolo capolavoro, per profondità e sensibilità, di un artista che io considero uno dei più grandi del panorama letterario del Novecento, non solo italiano.
E lo considero tale perché alla base della sua poetica c’è una forte indagine psicologica, una riflessione sull’esistenza che apre scenari a mio avviso da indagare e che rimandano alle opere cinematografiche di Bergman, per es., o di altri registi che hanno lavorato su temi simili (De Sica ne i Girasoli).
“No’ ghe go dito gnente d’i mii fioi/ che no’ i xe più”.
Come non collegarsi alla poesia “Per mio fio Franco”, alla “voluta” speranza di un suo ritorno dalla Russia, almeno di lui…
“Sentiremo pianin bàter la porta,
e sarà lui…
e tornarà la casa ciara, come
prima: saremo indrio felici”

Come versi di chiusura di questa parabola esistenziale, intensa, ma vissuta sempre sottotono, con discrezione, e soprattutto sperando contro ogni speranza, scelgo una delle poesie finali dedicata alla moglie:

PRIMAVERA (A la mia Nina)

“El fringuel ga cantà
ne la su’ preson; nato
xe el tulipano, fresco,
in tel vècio pietr.
De qua poco, molado,
svolarà via el fringuel
co’ un zigo; el tulipano
farà un fior rosso o zalo.
E anca tuto ‘sto qua
sarà passà, finido.

Da “versi” in COLORI p. 208

Tutto muore, tutto rinasce. È l’eterno ciclo della vita. Nel suo stile di sempre, in sordina, il poeta dà l’addio al piccolo-grande mondo che ha amato. Anche nel dolore.

Gipsi Mussel